La Stampa è il primo quotidiano a dotarsi della figura del diversity editor: un’ulteriore prova di quanto il mondo della comunicazione si sta sempre di più sensibilizzando sul valore di una corretta informazione relativa alla diversità e alla disabilità.
A coprire il ruolo di diversity editor nella redazione del quotidiano torinese è Pasquale Quaranta. Curatore di un sito personale, Quaranta è stato anche uno dei relatori della Tavola Rotonda, in programma all’interno dell’ultimo Inclusion Job Day. A margine dell’incontro abbiamo parlato con lui sugli aspetti più importanti della sua professione.
Come è nato il bisogno di un diversity editor in redazione?
L’attenzione sul linguaggio giornalistico è cresciuta grazie all’influenza dei social. Le persone che vivono le diverse sfaccettature della diversità, come la comunità LGBTQIA+, gli afrodiscendenti, le persone con disabilità hanno cominciato a condividere le proprie esperienze e punti di vista. Questa presa di parola ha messo in luce la sottorappresentazione di queste voci nei media tradizionali. Movimenti come BlackLivesMatter e MeToo hanno evidenziato disparità e discriminazione. Qui in Italia si è riconosciuto il mancato accento sulla diversità all’interno delle redazioni per ragioni storiche e culturali. A La Stampa si è iniziato un percorso critico di ascolto e formazione continua.
Qual è stata la reazione dei colleghi, in particolare quelli più anziani?
Le reazioni sono state varie. Alcuni hanno accolto la novità come una sorta di censura che impedisce di esprimersi liberamente. Bisogna, invece, comprendere che il linguaggio evolve con l’uso e il tempo, e l’adozione di un linguaggio più inclusivo non implica la perdita della libertà di espressione. Altri colleghi hanno criticato il concetto di “politically correct” sottolineando il fatto che talvolta può essere percepito come eccessivo, eliminando termini o comportamenti non necessariamente discriminatori. C’ è chi ha mostrato interesse dimostrando di voler apprendere e migliorare. Infine, alcuni colleghi si sono dimostrati entusiasti, riconoscendo l’importanza di combattere pregiudizi e stereotipi.
In quali errori si incorre più frequentemente nel linguaggio giornalistico?
Molti che riguardano ancora le donne. Un errore frequente è il focus eccessivo sull’aspetto fisico piuttosto che sulle competenze. Persiste, inoltre, l’utilizzo di espressioni paternalistiche come “signorina” o “ragazza”, così come il “cuginismo” come lo ha definito Michela Murgia: consiste nel chiamare le donne per il loro nome come se fossero cugine del giornalista. Inoltre, si continua a inserire l’articolo determinativo davanti al loro cognome, al contrario che per gli uomini. Infine, le donne vengono raffigurate in ruoli tradizionali di genere, come casalinghe o madri, anche quando sono in posizioni apicali.
Come valuti la situazione in Italia riguardo alla comunicazione sulla diversità e la disabilità?
Siamo in una fase di alfabetizzazione. Nei corsi di formazione giornalistica, organizzati da La Stampa insieme alla Stampa Subalpina e all’associazione Giulia Giornaliste, abbiamo avuto come relatrici e relatori Valentina Tomirotti, Marina Cuollo e Jacopo Melio, autore del libro “È facile parlare di disabilità (se sai davvero come farlo)” per Erickson. Sulle disabilità è importante evitare l’uso di termini che riducono la dignità delle persone e specificare di quale disabilità di parla. Bisognerebbe evitare il sensazionalismo e concentrarsi sulla sostanza della storia per presentarla in modo equilibrato. Ancora oggi ignoriamo le questioni legate all’accessibilità mentre dovremmo assicurarci che le informazioni siano davvero accessibili. Questo può includere la fornitura di testi alternativi, sottotitoli per i video o altre misure per garantire che tutte e tutti possano accedere alle notizie.
Qual è il ruolo dei social media nella diffusione di un linguaggio volgare o offensivo sulle tematiche che segui? Quali soluzioni proponi?
I social media hanno un ruolo significativo nella diffusione del linguaggio rispettoso, ma possono anche contribuire all’esplosione della volgarità. Gli algoritmi possono aumentare le divisioni e l’anonimato online può incoraggiare a esprimere opinioni offensive. Bisognerebbe iniziare con l’educazione nelle scuole, insegnando l’importanza del rispetto, dell’inclusione e del linguaggio appropriato anche negli ambienti digitali. Le piattaforme dovrebbero investire nella moderazione dei contenuti per contrastare la diffusione di contenuti offensivi, magari con l’aiuto dell’IA. Detto questo, sta a noi assumerci ogni giorno la responsabilità del nostro linguaggio online. Ciascuno di noi ha il potere di promuovere un ambiente online più rispettoso.
Pasquale Quaranta